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rossi elena
Donnerstag, 3. Oktober 2019
Zuletzt geändert: Mittwoch, 9. Oktober 2019
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Nel 1920 Freinet entra per la prima volta in una scuola tradizionale e trova la tipica aula con i banchi in fila e la cattedra rialzata.
Questa diposizione gli sembra simile ad uno spazio di una prigione e compie un atto che resterà simbolico.
Colloca la cattedra al livello del pavimento, inserisce scaffalature destinate a raccogliere stampati degli alunni e mette i banchi in centro.
È una nuova organizzazione della classe non più pensata per lezioni frontali ma che risponde alle esigenze del lavoro di gruppo, alla libera espressione dei ragazzi e alla loro partecipazione attiva al processo di apprendimento e formazione.
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rossi elena
Donnerstag, 3. Oktober 2019
Zuletzt geändert: Donnerstag, 31. Oktober 2019
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L’innovazione più celebre di Freinet è senza dubbio la “tipografia scolastica”.
Si trattava di una vera tipografia, capace di stampe nitide e di tirature elevate.
I fanciulli maneggiando i caratteri tipografici, allineandoli sul regolo, preparano le bozze di stampa, che correggono con il maestro. Apprendono a riflettere, a leggere, a scrivere, comporre, condividere.
Nasce così l’idea del “libro di vita”: in esso venivano raccolti i testi elaborati dai ragazzi che poi potevano essere condivisi e diventare oggetto di ulteriori discussioni, avviando un dialogo con le classi o scuole.
I documenti raccolti nei lavori di ricerca divennero man mano più numerosi e imposero l’esigenza di una documentazione sempre a portata di mano, da qui l’avviamento dei diversi “schedari scolastici”, destinati ad arricchirsi incessantemente.
Il contenuto dei classici manuali scolastici e degli altri fonti di ricerca venne selezionato, scelto, ritagliato, incollato su schede, diventando elemento di schedari in continuo arricchimento.
Tipografia in una scuola oggi
Celestin Freinet; “Le mie tecniche”, Nuova Italia Firenze, 1969
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rossi elena
Donnerstag, 3. Oktober 2019
Zuletzt geändert: Mittwoch, 9. Oktober 2019
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«Insegnare è l’arte di fare emergere le domande e accompagnare gli alunni nella ricerca delle risposte».
Célestin Freinet
Nel testo la Scuola del popolo (C. Freinet, La scuola del popolo, Roma, Editori Riuniti, 1973) Célestin Freinet, maestro e pedagogista nato a Garg sulle Alpi Marittime da una famiglia di contadini nel 1896, afferma che il compito primario della scuola è “quello di preparare alla vita”, aprendo la scuola al mondo reale che sta al di fuori di essa.
L’esigenza da lui espressa di “aprire la scuola” all’esterno nasce dal suo percorso biografico: nel 1915 Freinet viene chiamato alle armi e in guerra fu ferito gravemente ai polmoni. Nominato nel 1920 maestro in un piccolo paesino di montagna, dopo aver rifiutato la pensione di invalidità, si ritrova in un ambiente mal sano che gli impedisce, e impedisce ai suoi alunni, di far lezione al chiuso.
L’aula che lo accoglie era simile a tante di quell’epoca: "banchi disposti in file rigide, predella per il maestro, attaccapanni fissati al muro, lungo i muri grigi qualche carta geografica della Francia, alcuni cartelloni murali del sistema metrico, simbolo d’immobilità e di silenzio”.
Avverte così l’esigenza di modificare l’ambiente e insieme ad esso i metodi dell’insegnamento tradizionale, definito da lui autoritario e repressivo. Sposta la cattedra a livello dei banchi dei suoi alunni, e decide di predisporre nelle aule scatole di lavoro per esperimenti, l’allestimento di specifici laboratori nell’ambito della scuola, soprattutto per attività manuali: la coltivazione di fiori e piante; la cura di animali.
Il laboratorio era per Freinet qualcosa di molto concreto dove il bambino poteva usare mani e cervello per costruire qualcosa. C’era nelle sue scuole un laboratorio di falegnameria, di creazione di materiali per la documentazione, uno di espressione grafica, un laboratorio musicale e altri.
Nel 1928 con il contributo di Élise, la giovane maestra che divenne sua moglie, fonda la CEL (Coopérative de l’enseignement laïc) che due anni dopo contava già oltre un centinaio d’insegnanti.
Nel 1935 a Vence, in mezzo alla natura, fa costruire con l’aiuto di alcuni volontari, i primi edifici dell’École Freinet, scuola nata con laboratori, senza classi, un grande orto e molti spazi all’aperto per studiare e lavorare.
Nel 1939, scoppiata la guerra, Célestin Freinet viene arrestato e poi internato nel campo di Saint-Maximi e la scuola di Vence fu chiusa. In prigionia C. Freinet inizia le sue opere maggiori che terminò anni dopo. Nel dopoguerra riprende, in continuo progresso, l’attività della CEL e della scuola di Vence.
Muore a Vence l’8 ottobre 1966, quando la sua scuola è ancora privata. Élise continua a dirigere l’attività editoriale e della scuola per altri quattro anni. Dalla scuola fondata dal grande pedagogista e maestro passarono grandi artisti nella scuola, da Picasso a Matisse, da Chagall a Braque.
Il movimento Freinet, rappresenta ancora oggi la punta più avanzata della pedagogia democratica in Europa.
Nel 1958 viene fondato sul modello dell’“L’Ecole Moderne” FIMEM (Fédération Internazionale des Mouvements de Ecole Moderne) con sede a Bruxelles.
In Italia è stato creato nel 1951 il CTS (Cooperativa della Tipografia e Scuola) che nel 1956 si è trasformato nell’attuale MCE (Movimento di Cooperazione Educativa) che pubblica una rivista omonima e ha rappresentanti soprattutto a Firenze, presso “Scuola-Città Pestalozzi” creata da Ernesto Codignola, a Torino a Milano, Bari.
fonte imm.:freinet-kooperative.de/grundlagen/einfuehrung/biographie-celestin-freinet/
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Daporta Anita
Montag, 30. September 2019
Zuletzt geändert: Donnerstag, 10. Oktober 2019
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Lesen und schreiben sollte in der Tradition Freinets nicht als Selbstzweck geübt werden. Die Schüler/innen sollten erleben, wie die Kulturtechniken ihr Leben bereichern. Ein wichtiges Instrument zum Üben von Lesen und Schreiben war für Freinet und ist für uns heute die Korrespondenz. Damit ist ein Briefwechsel mit einer Klasse gemeint: Die Schüler/innen schreiben ihre Briefe und lesen die Texte und Briefe ihrer Korrespondenten. Dass die Kinder Texte für andere Kinder verfassen wirkt sehr motivierend. Unsere heurige vierte Klasse hatte im letzten Jahr eine Brieffreundschaft mit einer dritten Klasse aus Franzenfeste. Es war eine große Freude und Ausregung, wenn wieder Post ankam. Die richtige Form eines Briefes zeigte ich den Schülerinnen, sie lernten sie aber nicht zum Selbstzweck, sondern weil sie sie anwenden mussten. Mit viel Freude wurde verfasst, getippt, wurden Bilder eingefügt, das Kuvert beschriftet und frankiert. Die Beschriftung des Kuverts, das Kleben der Briefmarke, der Weg zum Briefkasten… dies alles erlebten die SchülerInnen sinnhaft. Das ungeduldige Warten auf ein Antwortschreiben zeigte mir auch die Freude der Kinder. Jeder neue Brief wurde schnell gelesen, mitunter fast verschlungen. Die letztjährige dritte Klasse hat seit der ersten Klasse auch einen Briefwechsel mit Frau Spinell. Sie erzählt den Kindern in ihren Briefen immer viel von Holland, wo sie lebt, und von ihren Erfahrungen. Umgekehrt schreiben ihr die Kinder immer mit viel Freude, was es Neues gibt. Ich glaube, dass diese Form des Übens von Lesen und Schreiben sehr erfolgreich ist, weil es den Kindern gleich die Sinnhaftigkeit ihrer Arbeit aufzeigt. Sie verstehen die Notwendigkeit, diese Fähigkeiten zu üben und zu trainieren und erleben, dass sich jemand daran erfreut und darauf reagiert (vgl. Baillet, Dietlinde: FREINET- praktisch, BELTZ Taschenbuch, Weinheim und Basel, 1995, S. 45ff).
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Daporta Anita
Montag, 30. September 2019
Zuletzt geändert: Donnerstag, 10. Oktober 2019
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Die Schule war für Petersen in erster Linie eine „Familienschule“, deren Auftrag es sei, die Erziehung der Familie zu ergänzen, fortzuführen und den Schüler/die Schülerin enger mit unserer Kultur vertraut zu machen. Zur Schulgemeinschaft gehörten für den Pädagogen neben den SchülerInnen und LehrerInnen infolgedessen auch die Eltern. Das Lernen sei nachhaltiger und die Kinder leistungswilliger und -bereiter, wenn die ganze Schulgemeinschaft mitwirke. Deshalb sei eine gute Beziehung zu den Eltern sehr wichtig und dass sie der Schule und den Lehrern positiv gegenüberstehen. Auch helfe es, wenn die Eltern Einblick in die tägliche Arbeit mit den SchülerInnen haben, wenn sie wissen, was und wie etwas passiert. Dies sei v.a. wertvoll, weil viele Eltern in ihrer Grundschulzeit Schule ganz anders erlebt hätten (vgl. Heger, Ingrid, Höchtl, Susanne: Schüler, Eltern und Lehrer als Schulgemeinschaft IN: Eichelberger, Harald, Wilhelm, Marianne: der Jenaplan heute- eine Pädagogik für die Schule von morgen, Innsbruck, Wien, München, Studien- Verlag, 2000, S.190ff). Wir bemühen uns um eine gute Zusammenarbeit mit den Eltern. Dies fängt damit an, dass wir uns, auch außerhalb der persönlichen Sprechstunden, Zeit für Elternkontakte nehmen. Wir laden sie in die Schule ein, wie nun z.B. bei den anstehenden Präsentationen zum Persönlichen Thema in der vierten Klasse. Wir laden die Eltern auch als Experten in unsere Klassen ein. So wird eine Gruppe in der besagten Klasse nun das Persönliche Thema „Die Evolution“ präsentieren und im Anschluss bot sich eine Mutter, die auch Biologin ist, an, mit uns den Lauf der Evolution mit Maria Montessoris schwarzem Band zu legen.
So kommen die Kinder in den Genuss von Expertenunterricht, was auch eine andere Idee Petersens aufgreift: Jeder Mensch, wie auch jeder Lehrer hat Stärken und Schwächen. Es ist für die gesamte Schulgemeinschaft sinnvoll, wenn der Lehrer mit den Kindern Kompetenzen erarbeiten kann, die den eigenen Stärken entsprechen. So war es an Jena- Planschulen mitunter so, dass am Freitag die Gruppen getauscht wurden und jeder Lehrer mit den ihm nur für diesen Tag Anvertrauten an etwas arbeitete, was seinen Stärken entsprach. Bei dieser Idee ist zwar immer vom Lehrer die Rede, der Gedanke des Expertenunterrichts ist aber derselbe (vgl. (Petersen, Peter: Der Kleine Jena- Plan, Weinheim und Basel, Beltz Verlag, 64. Auflage 2011, S.92).
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Daporta Anita
Montag, 30. September 2019
Zuletzt geändert: Donnerstag, 10. Oktober 2019
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Für Peter Petersen waren Feiern ein wichtiger Bestandteil des schulischen Lebens. „In der Feier lernen wir uns und unsere Mitmenschen auf besondere Weise kennen, wir erleben, dass es wertvoll und schön ist, miteinander zu verkehren.“ Sie sind nicht immer nur fröhliche Anlässe, auch das Teilen von Kummer hat darin Platz. In dieser Zeit wird v.a. die Schule als Lebens- und Arbeitsgemeinschaft erfahren (Vgl. Both, Kees: Jenaplan21, Schneider Verlag Hohengehren GmbH, Baltmannweiler, 2028, S. 150ff).
Dieser Gemeinschaftsgedanke ist für Petersen grundlegend. Er ist die „alles Geschehen innerhalb der Schulgemeinde letzthin normierende Idee“, zu der die Feiern einen wesentlichen Beitrag leisten (vgl. Petersen, Peter: Der Kleine Jena- Plan, Weinheim und Basel, Beltz Verlag, 64. Auflage 2011, S.24). Auch deshalb bezeichnet Petersen die Feier als eine Bildungsgrundform.
Wir als Klassen mit Reformpädagogischer Ausrichtung haben eine Schulfeier, die ungefähr alle zwei Monate stattfindet. An dieser Feier nehmen die SchülerInnen aller Klassen teil. Die Moderation und Planung übernimmt dabei die 5. Klasse, Kinder der 4. Klasse dürfen abwechselnd helfen und wachsen in die Aufgabe hinein.
Zwei Wochen vor der nächsten Feier kommen die Organisatoren und kündigen die Veranstaltung an. Nun weiß jedes Kind, dass es bald wieder eine Schulfeier gibt und kann sich Gedanken machen, ob es etwas vorführen möchte. Eine Woche oder einige Tage vor der Feier kommen die Moderatoren dann noch einmal in jede Klasse und fragen, wer was machen möchte. Die Meldungen werden notiert. In der folgenden Zeit bekommen alle SchülerInnen in den Freien Arbeitsphasen Zeit, sich auf ihren Auftritt vorzubereiten. Dies ist v.a. wichtig, weil viele Kinder sich entschließen, etwas in der Gruppe zu machen und dann das außerschulische Üben ein Mehraufwand für die Familien wäre. Die jungen Künstler und Akrobaten lernen in dieser Zeit sehr viel: Sie müssen sich Gedanken machen, gegebenenfalls Partner suchen, sich für einen Auftritt anmelden und alles Notwendige zum Üben mitnehmen. An diesen Verantwortlichkeiten, die alleine bei den Kindern liegen, wachsen sie sichtbar.
Am Tag der Schulfeier treffen wir uns im Konferenzsaal und die Fünftklässler moderieren. Sie kündigen jeweils den nächsten Auftritt an. Für die Kinder ist es anfangs ein großer Schritt, auf diese Bühne zu gehen vor dem beinahe vollen Saal mit allen SchülerInnen aus den Klassen mit Reformpädagogischer Ausrichtung und den LehrerInnen. Im Laufe der fünf Grundschuljahre merkt man aber, dass alle Kinder mehr Routine entwickeln. Es melden sich auch SchülerInnen, bei denen man es nicht gedacht hätte und es wird für fast alle selbstverständlich, dass sie einen Beitrag leisten zum Gelingen der Schulfeier. Das Lampenfieber, das einige am Anfang sichtbar quält, verliert sich rasch. Ein wichtiger Beitrag dazu ist das wertschätzende Applaudieren für alle, das uns sehr wichtig ist. Wir hatten am Donnerstag, 26. September unsere erste Schulfeier in diesem Jahr. Dabei sahen und hörten wir einen Tanz, ein Stück auf der Blockflöte, Witze und Scherzfragen wurden vorgelesen, eine Gruppe zeigte einen Versuch mit einer Colaflasche, es gab eine Zirkus-/Akrobatikvorführung, ein Mädchen schlug das Rad. So war das Programm bunt gemischt und die Verantwortung dafür lag nur bei den Kindern. Die Lehrer/innen hören erst, wenn das nächste angekündigt ist, was auf dem Programm steht. Vorher machen das alles die Schüler/innen untereinander, ohne Hilfe der Erwachsenen. Es gab auch schon einmal nur eine sehr kurze Schulfeier, was die Kinder dann mit protestieren quittierten. Als man ihnen dann erklärte, dass das ihre Verantwortung sei, wenn sich wenige anmelden sei die Schulfeier kurz, schnellten die Anmeldungen wieder rasch in die Höhe. Ich denke, dass die Schulfeier ein Erleben der Gemeinschaft ist, bei der alle unmittelbar erfahren, wie wichtig der Beitrag jedes einzelnen zum Gelingen für alle ist.
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Daporta Anita
Montag, 23. September 2019
Zuletzt geändert: Donnerstag, 10. Oktober 2019
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Für Peter Petersen ist die Schule eine „Lebensstätte“ und nicht eine „Unterrichtsanstalt“. Der wesentliche Unterschied besteht für den Pädagogen darin, dass erstere an der ganzen Person des Kindes interessiert ist. Sieht man die Schule als Lebens- und Arbeitsgemeinschaft, in der die Schüler/innen v.a. durch das Spiel und die Sprache ihr Welt- und Selbstbild aufbauen, bedingt diese Sichtweise, dass die Sprachkompetenz der Kinder fundamental ist und das Gespräch eine große pädagogische Aufgabe hat. Die Entwicklung der Gesprächsfähigkeit, verbale und nonverbale Handlungsmöglichkeiten zu fördern, zuhören und verstehen sind eine wichtige Voraussetzung für den Wissenserwerb, aber v.a. auch im sozialen Zusammenleben der Menschen.
Am besten kann diese Fähigkeit in einer heterogenen Gruppe gelernt werden: Alle Schüler/innen finden mit der Zeit zu einer gemeinsamen Sprachkultur und machen das Lernen intensiver und ertragreicher. Dazu müssen echte Gesprächsanlässe geschaffen oder aufgegriffen und klug pädagogisch genutzt werden. Auch muss jeder, auch der Lehrer, abschätzen, inwiefern seine Äußerungen und Ausführungen jetzt vonnöten sind, denn die Jenaplan-Schulen pflegen das schweigende Denken und das schweigende Handeln. Wir starten in den Tag, indem wir uns auf dem runden Teppich treffen, der in jeder Reformklasse ausliegt. Dieser Teppich ist der pädagogische Ort für Kreisgespräche, an denen alle teilnehmen. Die Form des Teppichs ist fundamental, weil sie es nicht möglich macht, dass es bessere oder schlechtere Plätze gibt. Alle Plätze sind gleich, wie auch alle Gesprächsteilnehmer gleichwertig sind. Wir beginnen oft mit einem Morgenkreis, in dem die Schüler/innen erzählen dürfen, was ihnen wichtig ist. Dazu ist die Kreisform auch günstig, weil so jeder jeden gut sehen kann.
Es gibt nach Petersen viele verschiedene Kreise, weil jedes Treffen nach dem Sinn dieses benannt ist. So gibt es den Planungskreis, den Berichtkreis, den Lesekreis, den Evaluationskreis und viele mehr. Im Laufe eines Schultages gibt es immer wieder Gesprächskreise, wobei wir versuchen, aktuelle Anlässe zu benutzen, um eine Gesprächskultur mit den Kindern zu erarbeiten. Einerseits üben wir dabei den Gebrauch der Standardsprache, festigen aber auch die Teilkompetenzen Hören, Aufnehmen, Verstehen, Sich- Einbringen und das Aufeinander- Eingehen. Zum Gelingen ist es fundamental, dass es klare Regeln gibt, an die alle Schüler/innen sich zu halten haben:
- Wer etwas sagen will, meldet sich zu Wort.
- Es redet nur ein Kind.
- Wir sagen und begründen unsere Meinung.
- Wir hören einander zu.
- Alle Meinungen werden akzeptiert.
- Wir sind ehrlich zueinander und schwindeln uns nicht an.
Diese Regeln einzuüben ist sehr wichtig, weil ohne sie ein sinnvolles, wertvolles Gespräch nicht möglich ist. In der Klasse fassen wir sie unter dem Oberbegriff „Gesprächsregeln“ zusammen (vgl. Eichelberger, Harald: Die Bildungsgrundformen und Heger, Ingrid: Das Gespräch IN: Eichelberger, Harald, Wilhelm, Marianne: der Jenaplan heute- eine Pädagogik für die Schule von morgen, Innsbruck, Wien, München, Studien- Verlag, 2000, S. 40ff, 151ff; Both, Kees: Jenaplan 21, Baltmannsweiler, Schneider Verlag Hohengehren, 2018).
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Daporta Anita
Montag, 23. September 2019
Zuletzt geändert: Donnerstag, 10. Oktober 2019
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Petersen benutzte den Begriff der „Patenschaften“. Die Grundidee dahinter war, das ältere Schüler jüngeren Schülern im Schulalltag helfen. Diesen Gedanken greifen wir an unserer Schule auf: Jeder Kind in der ersten Klasse bekommt einen „Schutzengel“, der es in die Pause begleitet und ihm die Eingewöhnung in die Schule erleichtert. Die Schutzengel sind auch Ansprechpartner bei Unsicherheiten während der Pause oder der Mittagspause.
So bekommen die jüngsten Schüler/innen Hilfe und Unterstützung, v.a. aber treten die Jüngsten und Ältesten miteinander in Beziehung und tauschen sich aus. Die Hemmschwelle, miteinander zu interagieren, verschwindet merklich. Unsere Umsetzung geht dabei aber nicht so weit, wie es Petersen an seiner Schule pflegte (,dass der Schutzengel Ansprechpartner des Lehrers ist bei Problemen, dass der Schützling neben dem Schutzengel arbeiten darf u.ä. Damit kommen wir einer anderen Vorstellung Petersens nach: Sein Konzept sollte ein Grundgerüst sein, dass durch die Lehrer/innen vor Ort an die Bedürfnisse und die Realität ihrer Schule angepasst werde. Wobei auch in diesem Zusammenhang anzumerken ist, dass wir als Klassen mit Reformpädagogischer Ausrichtung uns immer weiterentwickeln möchten und eine weitreichendere Bedeutung der „Schutzengel“ mit Vorschlägen, wie sie Petersen in seinen Schriften macht, in den nächsten Jahren als Ziel durchaus denkbar sind (vgl. Petersen, Peter: Der Kleine Jena- Plan, Weinheim und Basel, Beltz Verlag, 64. Auflage 2011, S.75f).
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Daporta Anita
Dienstag, 17. September 2019
Zuletzt geändert: Samstag, 12. Oktober 2019
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Bei der Gestaltung der Räume orientieren wir uns an den Gedanken Peter Petersens, der von einer „Schulwohnstube“ spricht. Der Raum sollte zum Wohlfühlen einladen und ein anregender Lern- und Arbeitsort für die Schüler/innen sein. Dieser Idee versuchen wir bei der Raumgestaltung Rechnung zu tragen.
Das Zentrum jedes unserer Klassenräume bildet ein runder Teppich. Dieser wird v.a. für alle Arten von Gesprächen wie z.B. den Morgenkreis genutzt. Die Form des Teppichs ist dabei von zentraler Bedeutung. Für Petersen ist der Kreis die oberste Organisationsform, da er einerseits eine geschlossene Einheit bildet, zu der jeder gehört, es aber auch keine besseren und schlechteren Plätze gibt. Zudem kann jeder jeden gut sehen und miteinander in Beziehung treten.
Die Kinder sieht Petersen als zusammenlebende Gemeinschaft, weshalb auch die Anordnung der Tische den Gruppenaspekt aufgreifen und den Schülern das Gruppenerlebnis ermöglichen sollte. Die Bänke sind in fast allen der fünf Klassen in Tischgruppen angeordnet. Diese Gruppentische sollen den Schülern die Kommunikation und den Austausch über ihre Arbeit erleichtern.
Die Kinder sollten laut Peter Petersen v.a. selbstständig und selbsttätig arbeiten. Dies stellt Anforderungen an die Raumgestaltung. Die vorbereitete Lernumgebung muss dem Kind Orientierung geben, sodass es sich ohne Hilfe seine Materialien beschaffen kann. Deshalb weisen unsere Räume eine klare Strukturierung auf: Die Arbeitsmittel stehen in einer deutlich sichtbaren, den Kindern gut bekannten Anordnung zur Verfügung. Diese Klarheit ist eine Grundvoraussetzung für freiere Arbeitsformen, damit Kinder in der angestrebten Art und Weise arbeiten können.
Unsere Schüler/innen arbeiten aber nicht nur im Klassenzimmer. Wir nutzen auch den Gang intensiv. So haben die Kinder im dritten Stock auch eine gewisse Bewegungsfreiheit, auch wenn diese nicht in dem Ausmaße gegeben ist, wie es der Pädagoge propagiert. Bei ihm durften die Schüler sich frei im Raum und in der Schule bewegen. Bei uns ist dies im Kleinen bis jetzt umgesetzt worden.
(vgl. Petersen, Peter: Der Kleine Jena- Plan, Weinheim und Basel, Beltz Verlag, 64. Auflage 2011, S.60, 64)
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V. Goller Brixen Reform
Donnerstag, 20. Dezember 2018
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Auch in diesem Schuljahr arbeiten die Schüler/innen der Klasse 4C an ihren Persönlichen Themen. Alle sind sehr motiviert bei der Sache, da sie ihre Themen selbst auswählen durften. Die Kinder arbeiten mit viel Einsatz daran und ich als Lehrerin freue mich bereits auf die Präsentationen. Die Themen sind sehr vielfältig. Von Kristallen, Erdbeben, Vulkanen, dem Marder, der Lunge und von Ski Alpin werden die Kinder erzählen.
Diese Arbeit an den Persönlichen Themen ist ein Kernpunkt der reformpägagogisch ausgerichteten Klassen.
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Letzte Änderung: 04.12.2024
© Deutsche Pädagogische Abteilung - Bozen. 2000 -
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